(Foto: Repertorio)
La Direzione investigativa antimafia di Firenze, con la collaborazione delle Sezioni operative di Bologna e Catanzaro, ha sequestrato beni per un milione e mezzo di euro all'imprenditore calabrese Antonio Silipo, esponente della 'ndrangheta in Emilia Romagna, attualmente detenuto in carcere. Il provvedimento, emesso dal Tribunale di Reggio Emilia su proposta del direttore della Dia, e' stato eseguito nelle province di Reggio Emilia e Crotone e ha riguardato 6 societa', 9 immobili (tra fabbricati e terreni), 23 beni mobili registrati e 18 rapporti bancari (conti correnti, libretti di deposito e dossier titoli). Le indagini economico-finanziarie condotte sul conto dell'indagato e dei suoi familiari, spiegano gli investigatori, "hanno dimostrato l'esistenza, a fronte di esigui redditi dichiarati nel corso degli anni, di un tenore di vita e di movimentazioni di capitali, nonche' di investimenti immobiliari sproporzionati rispetto alle capacita' reddituali dichiarate". Tra i precedenti di Silipo, nato nel 1969 a Cutro (Crotone), ma residente da molti anni a Cadelbosco di Sopra (Reggio Emilia), risulta il coinvolgimento nell'operazione "Grande Drago", per cui e' stato arrestato nel 2014 con l'accusa di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati fiscali, e nell'operazione "Aemilia", nell'ambito della quale e' stato giudicato nel 2016 con rito abbreviato e successivamente condannato dal Tribunale di Bologna a 14 anni di reclusione. "Quest'ultima sentenza - sottolinea la Dia - lo descrive come soggetto dedito a prestiti usurari, realizzati mediante societa' a lui riconducibili e dissimulati dietro false transazioni commerciali. Nella riscossione delle rate, Silipo riusciva spesso, anche con metodi estorsivi, ad ottenere a suo indebito vantaggio il trasferimento di beni o la sottoscrizione di titoli di credito. In altri casi le estorsioni venivano realizzate in concorso con Nicolino Sarcone, organizzatore di primo piano dell'attivita' illecita per conto del clan 'Grande Aracri' di Cutro".
Una holding criminale, una multinazionale del delitto. Così i giudici della Corte di Appello di Bologna definiscono l'associazione 'ndranghetistica al centro del processo 'Aemilia' nelle 1.400 pagine della sentenza in abbreviato, che aveva confermato in gran parte la decisione di primo grado per 60 imputati, con condanne fino a 15 anni. "Il progressivo innalzamento di livello dell'associazione - si legge - si rendeva ancora piu' evidente con il sempre piu' ampio e professionale inserimento dei sodali nel mondo degli affari sino a condurre alla formazione di una vera e propria holding criminale di rilievo internazionale". In cui "lo spietato e brutale sistema di approccio degli anni '90" cede il posto ad uno "piu' sottile", con metodi 'mascherati' sotto l'apparenza di un'attivita' imprenditoriale attiva in vari settori e "a tutto campo" nel mondo dell'edilizia, dei trasporti, dei rifiuti e movimento terra, dei quali il sodalizio calabro-emiliano assumeva in breve tempo il sostanziale monopolio". Secondo la sentenza la 'Ndrangheta emiliana e' una criminalita' organizzata che, nel corso degli anni, "pur manifestando costantemente la propria presenza in Emilia con numerosissimi episodi intimidatori e fatti di sangue, mostrava la propria potenza organizzativa con una peculiare capacita' reattiva e sapeva al contempo operare sempre piu' a 360 gradi, con una sorprendente abilita' mimetica per meglio infiltrarsi nel tessuto economico imprenditoriale sano della regione". Il gruppo capeggiato da Nicolino Sarcone, condannato a 15 anni, pur mantenendo un legame con la 'casa madre' calabrese, e in particolare con il boss Nicolino Grande Aracri, aveva "piena autonomia decisionale sugli affari da concludere". Grande Aracri era infatti sempre informato degli affari trattati al nord o anche all'estero, oltre che uno dei principali se non l'unico finanziatore del business e a lui andava una percentuale dei profitti. Non era tuttavia da lui, osservano i giudici "che dipendeva l'ideazione o la decisione di quali imprese assoggettare in Emilia ne' di quali occasioni economiche sfruttare o creare".
L'ex consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia Giuseppe Pagliani, condannato a quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa, "costituiva un tassello essenziale per l'esecuzione del programma criminale del sodalizio operante in Emilia cui forniva effettivamente e concretamente una cooperazione ben precisa, efficace e consapevole". Lo scrivono sempre i giudici della Corte di appello di Bologna, nella parte della sentenza in cui motivano la decisione di riformare l'assoluzione in primo grado del politico. Secondo i giudici, Pagliani "non solo conosceva parte significativa dei sodali, la caratura e caratteristica criminale dei medesimi e l'ideazione da parte degli stessi di un progetto di attacco politico-mediatico alle massime autorita' locali", ma "aveva dato il proprio assenso al programma" che prevedeva "di ribellarsi" contro le interdittive emanate nei loro confronti dal prefetto, "contribuendo efficacemente per la propria parte a sdoganare pubblicamente la tesi del gruppo". Nell'analizzare la posizione di Pagliani i giudici ricordano il contesto in cui si collocano gli incontri che nel 2012 il politico ebbe con esponenti della cosca emiliana. Dopo le interdittive del prefetto di Reggio Emilia che avevano colpito alcuni di loro, infatti, era in atto una sorta di 'controffensiva' da parte del gruppo, che dimostrava una sempre maggiore insofferenza. Una situazione che non poteva sfuggire, secondo la sentenza, "a un avvocato, per di piu' esperto di questioni civilistiche, di gestione della cosa pubblica e di gestione dell'emergenza mafiosa in Emilia quale era Pagliani, che di contro in piu' momenti e ambiti riproponeva la tesi (ideata dai vertici della cosca) di persecuzione ai danni della comunita' calabrese locale dolosamente ordita dalle massima Autorita' locali)". E se poteva anche trattarsi di una strategia politica, "e' parimenti vero che le modalita' e le tempistiche attraverso cui Pagliani decideva di esporsi pubblicamente sostenendo la falsa tesi" risultano "univocamente sintomatiche in senso accusatorio" Per la Corte, dunque, le condotte del politico furono "concretamente idonee e deliberatamente orientate a fornire supporto, visibilita' e cassa di risonanza al progetto di attacco alle istituzioni e agli organi di informazione ideato dal gruppo criminoso per insinuarsi con maggior potenza, visibilita' e parvenza di legittimazione anche politica all'interno del tessuto sociale della regione".
Quattro incendi dolosi ai danni di auto appartenenti a cittadini di origine calabrese. E' il bilancio degli ultimi 10 giorni registrato in provincia di Reggio Emilia, dove nella notte di lunedi', verso mezzanotte e trenta, i vigili del fuoco sono intervenuti a Cadelbosco Sotto, frazione di Cadelbosco Sopra per un'auto in fiamme in via Landi. La vettura, una Mercedes Classe A, e' di proprieta' di Rosetta Muto di 43enne originaria di Crotone, che vive in paese. Si tratta della cognata (sorella della moglie) dell'imputato del processo Aemilia Antonio Crivaro, a cui gli inquirenti attribuiscono "la consapevole e volontaria partecipazione all'associazione di stampo mafioso, la osservanza delle sue gerarchie e regole e la fedelta' alle direttive ricevute" e il fatto di utilizzare "in modo costante il rapporto con gli altri associati come forma di allargamento della propria influenza nonche' capacita' affaristica e di inserimento nel sistema economico emiliano". Sul luogo dell'incendio sono intervenuti nella notte anche i Carabinieri, che hanno avviato le indagini. Nei giorni scorsi ben tre auto erano state date alle fiamme a Reggiolo: la terza era stata quella di Francesco Citro, l'autotrasportatore 31 enne ucciso tre ore dopo sulla porta di casa. Un episodio su cui indagano la Direzione distrettuale antimafia e i Ris di Parma, arrivati oggi nel paesino della Bassa reggiana.
A citarlo come teste nel processo “Aemilia” che si sta celebrando davanti al Tribunale di Reggio Emilia sono stati i legali di Alfonso Paolini, 64enne imprenditore cutrese trapiantato in Emilia, tra le figure chiave nell’inchiesta condotta dalla Dda nel gennaio 2015. L’attuale questore di Crotone, Claudio Sanfilippo, è stato sentito dai magistrati reggiani lo scorso 7 settembre in relazione alla sua attività di vicequestore vicario a Parma, ruolo ricoperto dal 2008 al 2015. A capo della Questura d’oltre Enza c’era allora Gennaro Gallo. La deposizione di Sanfilippo è stata filmata da Telereggio e pubblicata dal quotidiano web “Reggionline”. I magistrati contestano all’attuale questore di Crotone la sua partecipazione a sei o sette cene cui, oltre all’imprenditore di origini cutresi, sedevano al tavolo altre persone che oggi sono alla sbarra nel maxi-processo “Aemilia”. L’imprenditore è ai domiciliari perché imputato nel processo e accusato di associazione a delinquere di stampo mafioso. Secondo la Dda, Paolini era uno dei partecipi del sodalizio, dotato di «influenza, capacità affaristica e ben inserito nel sistema economico emiliano». «Ho conosciuto Alfonso Paolini – spiega Sanfilippo in aula – durante una cena al ristorante ‘il Portichetto’, al confine tra le province di Reggio Emilia e Parma. Ero vicario del questore di Parma, trasferito da Reggio nel 2008; mi ha invitato lui, dicendomi che c’erano dei suoi amici tra cui Alfonso Paolini e altre persone». Alle cene, ha sottolineato l’attuale questore di Crotone, ci si andava con l’auto di ordinanza di Gallo su invito dell’ex questore di Reggio Emilia. Secondo quanto riferito in aula sempre dall’ex vicario, tra i commensali «c’era anche il papà del calciatore della nazionale Iaquinta e il delegato della sicurezza del Parma calcio». Tavolate variegate, insomma, durante le quali Sanfilippo afferma però di non aver mai conosciuto l’identità degli altri convenuti. Affermazione, questa, che nel corso della deposizione non ha convinto il presidente della Corte, Francesco Maria Caruso. «E’ quanto mai strano – chiede il giudice – che questore e vicequestore andassero a cena con delle persone senza che il vicario sapesse chi fossero queste». Sanfilippo ha quindi ribattuto alla Corte che non si preoccupava di questo aspetto, in quanto, per lui «erano amici di Gallo». Prima di chiudere la deposizione, però, il presidente Caruso ha voluto che venisse reso noto chi era a pagare il conto. «Noi no – ha affermato Sanfilippo – penso Paolini».
BOLOGNA - Conferma sostanziale dell'impianto accusatorio e della sentenza di primo grado, ma con un colpo di scena, la condanna a quattro anni di Giuseppe Pagliani, consigliere comunale di Forza Italia a Reggio Emilia, in precedenza assolto. E' l'esito dell'appello per 60 imputati che hanno scelto il rito abbreviato nel processo di 'Ndrangheta 'Aemilia', concluso a Bologna. Ad aprile 2016, il Gup Francesca Zavaglia aveva pronunciato 58 condanne, fino ad un massimo di 15 anni. Pagliani era stato assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, ma i pm della Dda erano ricorsi in appello e i giudici della terza sezione penale hanno riformato la sentenza. E' stato, invece, confermato il proscioglimento per prescrizione della corruzione elettorale per l'altro politico coinvolto, l'ex assessore Pdl di Parma, Giovanni Paolo Bernini. Dimezzata, infine, la pena per l'imprenditore Giuseppe Giglio, passata da 12 a 6 anni.
TUTTE LE CONDANNE. La Corte ha dunque largamente aderito all'ipotesi di accusa, rappresentata in primo grado dai Pm Beatrice Ronchi e Marco Mescolini, in secondo grado dai Pg Umberto Palma e Nicola Proto. L'operazione 'Aemilia', che a gennaio 2015 porto' a 117 arresti e oltre 200 indagati, e' stata la piu' imponente contro la criminalita' organizzata in regione, individuando un'associazione di tipo 'ndranghetistico autonoma, legata alla Cosca Grande Aracri di Cutro, ma con epicentro nel Reggiano. Proprio a Reggio Emilia e' in corso il dibattimento per circa 150 imputati, ma la maggior parte dei capi, degli organizzatori e dei concorrenti esterni aveva optato per l'abbreviato. Tra le sentenze confermate ci sono dunque quelle a carico di Nicolino Sarcone (15 anni), Alfonso Diletto (14 anni e due mesi), Antonio Silipo (14 anni), Romolo Villirillo (12 anni e due mesi), Francesco Lamanna (12 anni), Antonio Gualtieri (12 anni) e Nicolino Grande Aracri (sei anni e otto mesi), il capocosca che in questo processo non rispondeva di associazione mafiosa. Conferma anche per le condanne della fiscalista bolognese Roberta Tattini (otto anni e otto mesi), i poliziotti Domenico Mesiano e Antonio Cianflone (otto anni e sei mesi), il giornalista Marco Gibertini (nove anni e quattro mesi), l'ex capoufficio tecnico del Comune di Finale Emilia Giulio Gerrini (due anni e quattro mesi). I giudici hanno invece condannato Michele Colacino, assolto in primo grado, a quattro anni e otto mesi: sia lui che Pagliani sono stati interdetti dai pubblici uffici per cinque anni e gli e' stato applicato un anno di liberta' vigilata, a pena espiata; altre posizioni hanno subito lievi modifiche, mentre sono stati assolti Vincenzo Spagnolo (aveva una condanna ad un anno e otto mesi) e Alfonso Patricelli (un anno e quattro). Conferma anche per i risarcimenti alle parti civili, liquidati in primo grado per oltre due milioni di euro a Regione Emilia Romagna (600mila euro), Comune e Provincia di Reggio Emilia, comuni reggiani di Gualtieri, Bibbiano, Reggiolo, Montecchio, Brescello, poi Cgil, Cisl, Uil, Libera, Aser e Ordine dei giornalisti Emilia-Romagna.
IL PROCURATORE DI BOLOGNA. «Al di la' della specifica posizione, il riconoscimento del concorso esterno vuol dire che e' stato dimostrato quel che da tempo si dice: cioe' che il fenomeno criminoso si contraddistingue per la presenza di una zona grigia, piu' o meno ampia, dove entrano politici, esponenti dell'imprenditoria, delle attivita' professionali che dall'esterno danno un contributo». E' uno degli aspetti significativi della sentenza di appello del processo 'Aemilia' sottolineato dal procuratore di Bologna Giuseppe Amato, coordinatore della Dda. La presenza di questa zona grigia «e' l'aspetto piu' inquietante - ha proseguito - su cui si deve incidere. Sia sul piano della prevenzione e repressione che su quello della percezione generale della collettivita', rispetto a forme di criminalita' che depauperano il patrimonio di un territorio». Amato ha evidenziato, inoltre, il fatto che i giudici «hanno valorizzato il contributo del collaboratore», cioe' l'imprenditore Giuseppe Giglio. «Mi fa anche piacere - ha aggiunto - che il processo abbia testimoniato la risposta della collettivita' dell'Emilia-Romagna, con una presenza abbondante di anticorpi per il contrasto. Non e' facile sconfiggere questa criminalita' in una regione ricca, dove puo' attecchire, attirata dalla possibilita' di investire. Ma se ci sono anticorpi ci si puo' ribellare. E poi c'e' la politica sana che e' la stragrande maggioranza, con attenzione al fenomeno e iniziative che ci fanno essere ottimisti, con attenzione e cautela». Amato e' dunque «contento per il mio ufficio, per il gran lavoro dei Pm Marco Mescolini e Beatrice Ronchi, che hanno fatto bene, a prescindere da come sarebbe andata».
BOLOGNA - C'è un nuovo pentito nel maxi-processo di 'Ndrangheta 'Aemilia', in corso a Reggio Emilia. E' Antonio Valerio, uno dei due intercettati mentre ridevano durante le scosse del Sisma 2012 [LEGGI ARTICOLO], e che da un paio di udienze ormai non viene più accompagnato nella 'gabbia' con gli altri imputati. La notizia del suo pentimento è stata data dal TgR dell'Emilia-Romagna. I legali di Valerio hanno rinunciato al mandato e l'uomo non sarebbe più nel carcere di Reggio Emilia, dov'era rinchiuso. Probabilmente è stato accompagnato in una località protetta. L'imputato è considerato ai vertici della 'Ndrangheta emiliana, era sfuggito ad un attentato, come ha ricostruito in aula Paolo Bellini, il killer reggiano che aveva tentato di eliminarlo. Si tratta dunque di un risultato importante per la Dda di Bologna, dopo il caso di Giuseppe Giglio, l'imprenditore che da oltre un anno sta collaborando con gli inquirenti.