Mala Tempora Currunt: un viaggio sonoro dal passato con tratti lirici e solenni
CROTONE Dalle periferie ossidate e corrose della Pertusola alle scorie dei ferriti di zinco utilizzate per costruire case popolari, strade, parcheggi e perfino scuole, la millenaria città di Crotone - l’ex-Stalingrado del Sud - è diventata suo malgrado, già a partire dalla fine del secolo scorso, uno dei simboli dell’inarrestabile crisi arrivata a travolgere il settore della chimica industriale, con tutto il corollario di disastri ambientali e criticità etiche per forza di cose intrecciati allo sgretolarsi di un modello economico diventato nel frattempo insostenibile.
E proprio Kroton, dall’antico nome della cittadina calabrese per come la battezzarono i greci 700 anni prima della nascita di Cristo, quando giunsero dal Peloponneso per dare vita a un insediamento umano reclamato dall’Oracolo di Delfi, si intitola l’ultimo e più breve frammento, quasi una colonna sonora in miniatura i cui tratti si dispieghino lirici e solenni al tempo stesso, di Mala Tempora Currunt, esordio “lungo” del collettivo Malutempu ideato e diretto dal musicista cutrese Antonio Olivo.
Certo, l’aspetto «cinematico» del brano e, di riflesso, del disco nella sua interezza, derivano anche dal contesto produttivo in cui è nato, ossia quel Festival della colonna sonora - la kermesse crotonese dedicata alle musiche d’autore per cinema e teatro - assurto sotto la direzione artistica del compositore Franco Eco non solo a punto di riferimento nel contesto degli eventi culturali del Meridione tutto, ma alla dimensione di vero e proprio incubatore per le iniziative, trasversali ai generi e alle generazioni, di tanti musicisti della zona e non solo.
Se però a tradire centinaia di riferimenti cinematografici, come se ci trovassimo di fronte a un «film per le orecchie» carico di suggestioni e ricordi, è la scaletta di Mala Tempora Currunt nel suo complesso, questo accade perché Olivo, a differenza di altri e pur meritevoli colleghi il cui debutto è stato reso possibile dalla suddetta rassegna, non è affatto un principiante: attivo in senso professionale dal lontano 2001, ha per vent’anni attraversato e sovente creato dal nulla vari progetti afferenti all’ala più sperimentale dell’heavy-metal, frutto di una personale inclinazione al metallo pe(n)sante culminata in generose collaborazioni con alcuni pesi massimi della scena rock internazionale (su tutti Pat Mastellotto, già virtuoso batterista di Mr. Mister e King Crimson) nonché nell’apprezzatissima trilogia di opere dei Kyterion (toponimo bizantino di Cutro), dal 2015 artefici di una rivisitazione in chiave black-metal, peraltro istericamente ululata in vernacolo fiorentino del tredicesimo secolo, delle prime cantiche dell’Inferno dantesco.
Alla guida dei Malutempu, Olivo ha scelto di cimentarsi con tutt’altre sonorità, forse meno urticanti nell’impatto ma non per questo meno radicali e immaginifiche. Mala Tempora Currunt è infatti un mosaico di note in cui si sovrappongono la nostalgia per un tempo impossibile, e cioè quello mitico e ancestrale dei nostri antenati (non solo il tempo remoto dei cicli epici, bensì il tempo, trasformato, della nostra infanzia perduta e sfigurata), e un imponente lavoro di contaminazione tra suoni, strumenti e schegge etnografiche provenienti da vari paesi del mondo ancorché in genere riconducibili a un timbro comune - arcaico, complesso, intensamente mediterraneo - attraverso il quale far risuonare il dolore di una terra di cui sopravvivono, stravolte dalla trascuratezza della politica e da un turismo di massa furioso e intermittente, solo poche, arrugginite reliquie.
Nonostante un linguaggio di stretta osservanza analogica e tradizionalista, articolato dalle chitarre, dalle percussioni e dai drappeggi orchestrali dello stesso Olivo, dalla lira e dal violino di Illias De Sutter Ntavlidis, dal basso di Davide Schipani, dalla fisarmonica e dai tamburi a cornice di Domenico Ierardi, le suggestioni esplorate da Mala Tempora Currunt sanno manifestarsi contemporanee pur evocando civiltà lontane: accade, per esempio, nella travolgente Rosa di Fest’, dove l’incalzare degli strumenti a corda assume una bellicosa fisionomia quasi folk-punk, oppure nella non meno vorticosa Fest’ E Malutìampu, altro pellegrinaggio sonico e spirituale alla radice di quella musica popolare in cui non smette di bruciare la realtà del mondo.
{source}<div style="left: 0; width: 100%; height: 0; position: relative; padding-bottom: 56.5%;"><iframe src="https://www.youtube.com/embed/videoseries?list=OLAK5uy_nnjDwNeGIZmLo-5thZ7qNd_5NOf_D7_NE" style="top: 0; left: 0; width: 100%; height: 100%; position: absolute; border: 0;" allowfullscreen scrolling="no"></iframe></div>{/source}
L’iniziale Vestigia Hominis - l’unica traccia recante una parte cantata - usa cinque, diverse voci femminili per creare una scenografia tra incendio dei sensi e raccoglimento interiore in grado di far pensare sia ai canti devozionali dei mistici indiani (quindi al qawwali) sia, per chi se la ricorda, agli inni sacri dell’ebrea yemenita Ofra Haza, mentre le cuciture elettroacustiche su fondale «sintetico» di Hera Lacinia celebrano il culto dell’omonima divinità, monumentalizzata nel santuario di Capo Colonna, riallacciandosi alla sofisticata fusione fra avanguardia occidentale, sensibilità orientale e fraseggi cameristici appartenuta al compianto Ryuichi Sakamoto.
La melodia ariosa e oracolare di Sciarada, e più ancora la cosmologia percussiva e multiculturale dell’ambiziosa Askòs (che rovescia il suo titolo, preso dalle anfore dei corredi funerari, per mettere in scena una vitalissima e tascabile sinfonia di vento, acqua e misteri), dicono di una ricchezza espressiva capace di attingere da più fonti, fino a configurare piccoli «concerti d’ambiente» contraddistinti da una moltitudine di richiami arcani, ma non sembra meno efficace, per contro, la misura minimalista della malinconica A Luna, tanto breve quanto onirica e misticheggiante nel suo tentativo di tracciare i lineamenti sonori della notte, delle stelle e dei volti di quanti, sfruttando il loro riparo, continuino a nutrire i propri ideali di cambiamento.
Colpisce, nei Malutempu, la continua volontà di esumare bellezza e classicità da un territorio - la Calabria ellenica, la regione dei mistici e dei santi medievali - annichilito, come tanti altri del nostro paese, dal cemento e dall’incuria, dagli abusi e dalla disaffezione; e colpisce l’idea di farlo componendo una pioggia di partiture impressioniste in forma di liturgia della vita quotidiana, raccogliendo le sensazioni minime e talvolta sotterranee delle camminate nei paesi isolati, della foschia nelle statali battute dalle perturbazioni, delle corriere affollate dal vociare degli studenti, delle piazze nei giorni di mercato, dei litorali d’inverno, dei vecchi bar illuminati da fioche lampadine, della provincia abitata da giovani con gli occhi già stanchi. Perché se è vero, com’è vero, che Mala Tempora Currunt, in ossequio a un detto di origine stavolta latina anziché greca, se possiamo almeno esimerci dal completarlo con la locuzione integrativa sed peiora parantur (viviamo tempi difficili, «ma il peggio deve ancora venire») è anche grazie a lavori densi, creativi e fradici d’inventiva come questo dei Malutempu. Ai quali va dato atto di aver realizzato un disco perfetto per accompagnare i nostri sogni a occhi chiusi e quelli, non meno importanti, a occhi aperti.