Cronaca

“zio”, come veniva chiamato dai membri dell’organizzazione, l’aveva infatti plasmata come fosse un clan, che, attraverso l’uso di armi, violenza e ritorsioni, stava conquistando il mercato della droga di Ascoli Piceno e della zona costiera di San Benedetto del Tronto.

Il volume d'affari era alto: l'acquisto della cocaina pura era a 30mila euro e veniva rivenduta al doppio e, una volta tagliata, triplicava di quantità e di valore. Il fulcro di tutto era appunto la casa a Porto D'Ascoli (Ascoli Piceno), abusiva e che spiccata per la presenza di leoni mosaicati, occupata dall'uomo per trasformarla in luogo di arrivo e stoccaggio ma anche taglio, confezionamento e smercio.

Quando la droga era in arrivo o durante lo smercio venivano poste delle persone di guardia a supporto del sofisticato sistema di controllo. La droga arrivava dal nord Europa, Albania, nord Italia e centro sud Italia, anche se era stata attenzionata una coltivazione in di marijuana in Spagna.

Le armi erano usate per intimorire e agire in caso di necessità (non sono state usate per omicidi): tra queste due pistole a tamburo, fucili a canna mozza e una bomba a mano vuota dell'Esercito italiano. A inizio attività, da quello che si apprende, sarebbero stati usati corrieri della droga minorenni.

Da quanto si è appreso oggi, l'organizzazione è risultata caratterizzata da rapporti di parentela tra gli associati, equilibrati dalla partecipazione anche di 5 donne, 3 delle quali colpite da custodia cautelare in carcere e 2 agli arresti domiciliari, e aveva stretto una stabile alleanza con alcuni albanesi, noti nelle Marche per la gestione di grandi quantitativi di cocaina.

L'uomo, facendo leva sul suo passato criminale e godendo ancora di amicizie con alcuni esponenti della 'ndrangheta calabrese, riusciva a intimorire anche i giovani sodali, spingendoli a svolgere numerose cessioni di stupefacente e a compiere azioni intimidatorie e ritorsive attraverso l'utilizzo delle armi.

Gli inquirenti hanno raccontato un episodio accaduto nel contesto di un'attivita' di spaccio, in cui M.V. ha usato violenza nei confronti di uno straniero vicino al gruppo, mettendolo in condizione di inferiorita' e brandendo un machete con il quale lo costringeva ad aderire alle sue disposizioni, imponendogli la sua condizione di vertice.

Nel corso dell'indagine sono state delineate numerose figure, tra le quali un cittadino di origine albanese di 33 anni, S.S., pregiudicato per reati in materia di stupefacenti, residente nel Teramano, che risultava essere interessato a una coltivazione di una piantagione di marijuana in Spagna da trasportare in Italia.

All'interno dell'organizzazione criminale, oltre alle figure di spicco, sono state individuate anche altre figure che, oltre all'attività di spaccio al dettaglio dello stupefacente, si occupavano del taglio, del confezionamento e della raccolta delle somme provento dell'attivita' di spaccio.

Inoltre, è emerso che il principale indagato e di altri appartenenti al gruppo avevano la disponibilità di diverse armi da fuoco, custodite nelle pertinenze dell'abitazione del capo e rinvenute nel corso di una perquisizione. A poca distanza dell'abitazione di M.V. è stata recuperata, grazie al fiuto di un cane che stava giocando nei paraggi, una bomba a mano, interrata all'interno di un involucro di vetro.

Nel corso delle indagini, sono stati effettuati cinque arresti in flagranza di reato di persone italiane e albanesi. Inoltre, sarebbe emerso che alcuni sodali, nonostante fossero detenuti per altri reati presso le case circondariali di Ascoli Piceno, Teramo e Ferrara, continuassero comunque a mantenere contatti con gli altri appartenenti al gruppo, tramite l'utilizzo di apparecchi telefonici, con l'obiettivo - raggiunto secondo gli inquirenti - di continuare a organizzare l'attività di spaccio.

«Le indagini hanno permesso di scoprire un'unione tra soggetti albanesi e calabresi. - ha affermato Monica Garulli, procuratrice della Repubblica di Ancona e della Direzione distrettuale antimafia - La riproposizione di metodi violenti nei confronti di chi poneva la resistenza è un fattore allarmante, così come lo è il fatto che il sodalizio criminale ha proseguito la sua attività anche nei carceri usando apparati telefonici. Anche questa disponibilità è inquietante, - ha osservato - perché nel corso delle attività tecniche si è appurato che le conversazioni avvenivano per dare direttive all'esterno del carcere».

11.07.2025